Articolo di Angelo Conti
Sette anni fa, proprio oggi, se ne andava Marco Marello, caporedattore de La Stampa, ma soprattutto anima di Specchio dei tempi per oltre trent’anni. E’ l’uomo che aveva preso in mano una associazione e, passo passo, ne aveva seguito la trasformazione prima in fondazione e poi anche in onlus. Ma, pur autore di questa metamorfosi formale, non era giornalista che amasse le sigle, la burocrazia, la carta bollata. Era un uomo che conosceva la gente. La conosceva perché il suo lavoro, prima di cronista di strada, poi alla guida di un manipolo di giovani giornalisti scapestrati, lo metteva ogni giorno di fronte a drammi, lutti, paure. Lui sapeva come fare ad ascoltare, e spesso ad aiutare. Aveva realizzato una assoluta sintonia fra il lavoro della cronaca e gli interventi della fondazione. Con la giacca di segretario e membro del cda di Specchio, Marco aveva la possibilità di decidere da solo. E lo faceva non nel giro di ore, ma di minuti. Con i suoi fulminei aiuti che noi correvamo a distribuire sul territorio, Specchio dei tempi era diventato una leggenda.
Marco aveva un altro pregio raro: sapeva stare davvero vicino, anche se seduto in redazione, ai suoi reporter che lavoravano in prima linea. Qualche volta con modi bruschi, sì, anche quelli, come si addice ad un capo vero. Ma con una attenzione continua e con un affetto che, noi giovani del mestiere, sentivamo sempre accanto, ricavandone forza e sicurezza. L’apoteosi del suo lavoro è stata, probabilmente, la sottoscrizione popolare lanciata dopo l’alluvione del Piemonte, nel novembre del 1994. Ci mise l’anima, ma soprattutto il mestiere: alla fine il counter del conto bancario scrisse 23.450.345.650 lire. Cioè oltre 23 miliardi di lire. Ancora oggi il record assoluto per una sottoscrizione non televisiva, costruita solo sulla carta, per giunta di un solo giornale. Con il fango negli stivali, chi scrive queste righe e il collega Ezio Mascarino restammo sul campo sei mesi, sino alla tarda primavera dell’anno dopo, aiutando decine di migliaia di famiglie, spesso in situazione operative molto precarie, confondendo il giorno con la notte, le albe con i tramonti. Ma con lui sempre vicino, regista di uno sforzo corale, senza pause e senza precedenti.
Non amava apparire. “Non ho il fisico adatto” raccontava sorridendo, prendendo in giro i suoi troppi chili. In realtà amava il lavoro della retrovia, dove si fa e dove non si parla. Ha scelto di andarsene in punta di piedi, chiedendo al suo amico più caro, Giorgio, di tenere segreta la sua fine. Non avrebbe mai gradito un funerale affollato, una lunga lista di necrologi, un pezzo strappalacrime come questo qui. Ma ho ritenuto giusto, sette anni dopo, rischiare un’altra sua bacchettata. Perché il ricordo di un uomo così deve essere un esempio per tutti. E, per noi di Specchio dei tempi, anche una motivazione in più per continuare il suo cammino.