Specchio dei tempi Tra gli Afar etiopi, il popolo nomade vittima dei cambiamenti...
17 Giugno 2019

Tra gli Afar etiopi, il popolo nomade vittima dei cambiamenti climatici

Reportage di Angelo Conti da Addis Abeba

Il sole illumina la terra, ma è la pioggia che fa crescere l’erba. La luce ci aiuta a scorgere volti amati, ma è nell’acqua che nasce la vita”. Sono frasi di una nenia etiope che spiega, meglio di tante parole, il rapporto fra la gente che vive nel Corno d’Africa e la natura. Che, con i suoi ritmi impazziti, sta mettendo a dura prova la sopravvivenza, la storia e le tradizioni di queste popolazioni, soprattutto quella dell’area desertica fra Somalia, Gibuti e l’Eritrea, la regione abitata dagli Afar, i più esposti alle mutazioni climatiche anche per la fragilità che vien loro dall’essere una popolazione nomade, sempre alla ricerca di poveri pascoli e di rarissimi pozzi. Questa area è considerata fra le più inospitali del pianeta, soprattutto per le temperature estive: sino ad oltre 50 gradi, con escursioni termiche importanti. A questo si aggiungono la siccità. A spezzare i lunghi periodi ci sono violenti nubifragi che scaricano in pochissime ore, a volte in pochi minuti, quantità d’acqua che provocano, nell’alveo dei torrenti, improvvise ed abnormi sollecitazioni. Gli argini di sabbia finiscono col cedere o col modificare il tracciato originario, provocando crolli e frane, devastando la precaria viabilità del territorio. Così, dati pluviometrici statisticamente in linea con la norma, nascondono invece cambiamenti radicali. Che segnano profondamente questa gente. Così cambia anche la vita degli Afar.  Fermo restando che qui esiste un forte legame con la tradizione e con le proprie radici, questo popolo fortemente nomade ha cominciato a convivere con ipotesi di stanzialità. Qualcuno così si è fermato ed ha cambiato il suo target: dalla pastorizia all’agricoltura, anche con risultati economici interessanti.

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Ma va detto che questo mutare di vita tocca, almeno sino ad oggi, percentuali di popolazioni minime, statisticamente trascurabili. Al pari dei dati migratori: qui tutti si muovono, ma quasi nessuno se ne va. Popoli nomadi, quindi certamente aperti ai cambiamenti del proprio status di vita, sembrano invece nettamente ribellarsi all’idea di lasciare il territorio. Quei pochissimi che se ne sono andati hanno scelto la caotica capitale Addis Abeba, o il più attraente Sudafrica. Praticamente nessuno è arrivato in Europa, destinazione invece molto desiderata dai somali, vicini di casa, appena oltre il confine.
Due le criticità di questa gente: l’educazione dei figli e la condizione della donna. La prima è dissimulata da dati che parlano di una scolarità in netto aumento. Ma il fenomeno dei bambini «iscritti a scuola» (e quindi nelle statistiche positive), ma che invece continuano a fare i pastorelli, è diffusissimo e poco controllabile, considerato il continuo spostarsi delle famiglie.

La condizione della donna è un’altra criticità. Qui alla donna tocca fare di tutto. Non solo la compagna e la madre, ma anche l’operaia, la contadina, la pastora, e soprattutto l’acquaiola. Sono comuni casi di ragazzine, costrette a camminare anche per 10 ore al giorno, tutti i giorni, per approvvigionarsi di acqua. A rendere bene l’idea dello status femminile c’è l’unità del peso in uso fra questa gente: «Schiena di cammello, schiena d’asino, schiena di donna». La legna si compra così, ma anche il foraggio o il mais. La schiena della donna ridotta ad una misura da mercato.

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Quale sarà il futuro degli Afar etiopi? Il percorso verso una vita meno dura appare complesso. Prioritaria oggi resta l’acqua (ed è quindi prezioso il lavoro di tante organizzazione mondiali, fra cui spicca la cuneese Lvia, che stanno cominciando a sfruttare l’enorme potenziale dell’energia solare per alimentare i motori dei pozzi) ma ci sono anche istanze di sicurezza, per limitare le incursioni dei pastori somali che varcano il confine alla ricerca di pascoli migliori e che li conquistano a suon di fucilate.
I somali sconfinano, gli Afar li respingono e il passo successivo si chiama Kalashnikov, che qui tutti tengono nella tenda, cartuccia in canna. Resta da dire, nonostante la drammaticità, che questo è un popolo apparentemente felice. Guarda l’esistenza comunque con positività, lontano dalle tentazioni delle moderne tecnologie, lontanissimo da contaminazioni che qui non sono materialmente possibili. C’è chi si interroga se tutto questo sia giusto, oppure se si tratti di una egoistica marginalizzazione messa in atto dalla civiltà. In realtà questo è un popolo che ha fatto e che fa continuamente delle scelte. Gente che sta un passo dietro al mondo, per restare sé stessa. 

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