Specchio dei tempi Vincenzo, che ha perso tutto e ora lotta contro il...
1 Dicembre 2021

Vincenzo, che ha perso tutto e ora lotta contro il cancro

Chiara Viglietti
La Stampa Cuneo, 1 dicembre ’21

E’ nato ottantadue anni fa nell’Africa d’Italia. Quella conquistata da Mussolini nello spazio della folle illusione fascista. E’ nato, Vincenzo, ad Addis Abeba. E quel nome ha fatto della sua vita un lenzuolo steso tra due balconi. Oltre il filo del mare, il sogno dolce di un’infanzia sottovuoto, lontana. Al di qua la vita che ti insegna a stare al mondo. Al gioco spietato di certe carte che passano per un fallimento, il buco nero degli strozzini e la vita che perde pezzi. Tutti i fili, uno dopo l’altro: la famiglia che si sfascia, i figli da riconquistare, un puzzle da ricomporre. Oggi Vincenzo abita una casa popolare a Cuneo, sessantacinque metri quadrati, e vive con una pensione da 600 euro, un piccolo assegno di invalidità e la Tredicesima dell’Amicizia, l’aiuto da 500 euro che Specchio dei tempi gli ha appena consegnato.

Ma vive pure di morfina. Senza non potrebbe tirare avanti. E avanti vuol dire fino alla fine del giorno. Poi il corpo reclama il dolore della sua integrità violata. Perché il tumore, l’ultimo che gli hanno diagnosticato, ha costretto i medici a tagliare nervi e recidere muscoli che solo la morfina riesce a ingannare. Per qualche ora, però: poi la mente sprofonda di nuovo nel dolore. «La mattina è il momento peggiore: devo prendere un mondo di morfina per tornare a sentire che sono vivo e non pensare a tutto il male che mi attraversa». Non c’è commiserazione nelle sue parole. Ma una firma per la vita così com’è, per accettazione. Meglio essere uomini risolti che i soliti sopravvissuti. E’ andata com’è andata: essere vivi come un privilegio. «Avevo una Ferrari, adesso cammino a piedi sotto la pioggia, cosa dovrei fare? Disperarmi? Ma perché: mi sono lasciato alle spalle la smania del possesso, dell’avere, dell’essere a tutti i costi. Vivo da povero senza sentirmi povero».

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Forse peggio che esserlo è diventarlo. Partendo da un inizio trasognato anche se guerrafondaio: lui che nasce ad Addis Abeba da un padre dirigente del Fascio, poi fatto prigioniero dagli inglesi, e la famiglia che nel frattempo ripiega su Napoli. Due anni dopo il padre torna, trova un posto in Finanza, Vincenzo frequenta le scuole migliori e studia. Lavora sodo. Impara le lingue del mondo: russo, spagnolo, inglese. Perché i suoi «avevano la fissa: mi dicevano che era come sapere le stesse cose ma di più». Più parole per dire è come aprire intere scatole cinesi per la mente. E sono questi i bagagli con cui Vincenzo lascia Napoli, viaggia in Italia, mette su famiglia e due figli.

Scala un’azienda: da dipendente diventa direttore. «Avevo la responsabilità di duemila persone. Poi un giorno mi avvicina un alto dirigente del Governo di allora: mi propone di diventare concessionario italiano di alcune importanti colossi farmaceutici che si occupano di prodotti galenici». E’ l’occasione per salire, scalare, ancora e ancora. Lui accetta: apre uffici e filiali in Italia, storia di 30 anni fa. «Fornivo grandi quantitativi per la Croce Rossa, le aziende sanitarie, i carceri. Gli accordi erano: mi pagavano dopo sei mesi. Dunque dovevo anticipare di tasca mia ma ero tranquillo: lo Stato prima o poi salda». 

Non aveva tenuto conto di Mani Pulite. Vincenzo finisce nel tritatutto di un’epoca che ha voluto ripulire la coscienza di un Paese senza riuscirci granché. E fallisce: «Ero disperato. Tutti i pagamenti delle aziende pubbliche erano stati bloccati ma io a mia volta avevo contratti firmati con le case farmaceutiche e dovevo pagare. Ero indebitato per 300 milioni: sono arrivati gli strozzini e sono fallito». La voragine è aperta, il fondo non ha fondo: «Ho lasciato la famiglia, ho tentato il suicidio in una camera d’albergo, sono stato salvato solo per il rotto della cuffia. Poi non so come ma mi sono rimesso in piedi. Ho aperto un’attività a Cuneo: lavoravo in campo pubblicitario».

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«Infine i miei tre tumori: per quello ai polmoni mi hanno dato 15 giorni di vita. Ed eccomi qui, ancora vivo». Aggrappato alle piccole cose: un’ora di canzoni, meglio se quelle che gli ricordano Napoli, lo sport in tv, qualche lettura, la telefonata di un amico. Nessun rimpianto, nessun vittimismo. «Tutto sommato è andata bene. Ma davvero la pensa così? «Certo, mi sarebbe piaciuto rivedere ancora una volta Addis Abeba. Ma non importa: io sono felice di quello che ho». Ah, cita Sant’Agostino: «No, cito me stesso. E quello che ho imparato dalla vita. Forse la sua lezione più importante».

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