“Abigail, la giovane venezuelana salvata grazie alle competenze piemontesi”, intervista al Prof. Massè

UnitoNews, 16/11/2022

Dal Sudamerica a Torino per evitare l’amputazione della gamba, dopo 5 anni di calvario tornerà a camminare grazie all’intervento realizzato alle Molinette dal team guidato dal docente dell’Università di Torino

Quando nel 2022 è arrivata a Torino, Abigail Reyes, 22enne venezuelana, rischiava l’amputazione della gamba. Cinque anni prima, era il 2017, si è sottoposta all’asportazione di un tumore benigno al femore, ma l’operazione le aveva causato una grave infezione. L’eccessivo costo degli antibiotici, unito alla difficoltà dell’operazione, sembravano portare a un’unica soluzione: amputare l’arto. Da lì è iniziato il calvario della giovane, concluso fortunatamente senza conseguenze nei giorni scorsi all’Ospedale Molinette. Un viaggio reso possibile grazie alla raccolta fondi organizzata da Specchio dei Tempi. Oggi, con l’intervento del team guidato da Alessandro Massè, docente UniTo e direttore di Ortopedia e Traumatologia al Centro Traumatologico Ortopedico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Città della Salute, la ragazza è fuori pericolo e presto potrà tornare a camminare.

Prof. Massè, che tipo di intervento avete realizzato?

La paziente è stata presa in carico dal mio team, composto da Stefano Artiaco e Matteo Olivero che, supportati dagli infettivologi delle Molinette, diretti dal Prof. Francesco Giuseppe De Rosa, hanno identificato il batterio che aveva causato l’infezione. Dopo aver eseguito un’ampia bonifica e una terapia antibiotica mirata, sono stati fatti dei trattamenti ripetuti di pulizia chirurgica del sito, fino ad arrivare alla guarigione della ragazza. La giovane età della paziente ha contribuito in modo determinante, garantendo delle condizioni biologiche favorevoli.

Si è trattato di un’operazione complessa?

Per noi era una procedura di routine. Questo tipo di patologia richiede non tanto un grande solista, quanto una grande orchestra di figure professionali dedicate: infettivologi, ortopedici e infermieri. Si tratta di problematiche multidisciplinari, quindi sono necessarie grandi strutture per gestire piccoli problemi. La Regione Piemonte ha da tempo istituito due poli che raccolgono la patologia infettiva ortopedica. Ci sono due centri di riferimento per questo genere di casi: l’AOU Città della Salute e l’ospedale di Vercelli, due centri che peraltro collaborano tra di loro in grande sinergia.

Due poli che, insieme ad altre strutture, consentono di operare in un contesto altamente innovativo.

Il nostro motto è “esageruma nen”, ma il Piemonte si pone all’avanguardia in Italia nella gestione della patologia infettiva osteoarticolare. Il concetto è: certe patologie di complessa gestione devono essere centralizzate. Quindi la regione ha identificato dei centri di riferimento per poterle gestire. Ripeto, più che un grande chirurgo, in questi casi ci vuole una grande struttura. E per grande struttura si intende quel luogo che ha in sé tutte le professionalità coordinate per la gestione di tali problemi.

Dopo i recenti casi di trapianti record, il Piemonte si conferma una realtà di eccellenza in campo medico?

Eccellenza anche organizzativa, se vogliamo. Il Piemonte, in molti ambiti, fornisce cure aggiornate ai massimi livelli internazionali, con modalità organizzative multidisciplinari che sono efficienti ed efficaci per la gestione di patologie complesse. A volte la gente si innamora del caso straordinario gestito dal chirurgo bravissimo, ma in questo caso il segreto del successo è nella realizzazione di un’organizzazione complessa ma efficace, che mette in campo professionisti eccezionali coordinati per gestire al meglio la situazione. Nella fattispecie, quella delle infezioni osteoarticolari, è richiesta una gestione multidisciplinare che in altre realtà, come quella venezuelana, non è stata realizzata. Le patologie infettive hanno il grosso rischio di sviluppare delle setticemie dagli esiti molto gravi. Fortunatamente Abigail è stata curata in tempo.

Abigail, un miracolo a Torino “Cammino e ora sarò dottore”

Joly Andrea,
La Stampa, 15/11/2022

La prima cosa che colpisce di Abigail Reyes, 22 anni di cui diciassette passati a studiare e ballare a Isla de Margarita in Venezuela e gli ultimi cinque a cercare di salvarsi la vita tra Sudamerica e Italia, è il tono della voce con cui racconta la sua storia. «Tutto inizia la sera de 12 settembre 2017», scandisce squillante e controllata, come se avesse imparato un copione a memoria e lo stesse ripetendo a un medico che deve sapere tutto.

“Abi”, cosi la chiamano gli amici, comincia a raccontare il suo percorso lungo 5 anni e 7.697 chilometri, dalla diagnosi di «un tumore osseo grave alla gamba lungo 7,5 centimetri» alla salvezza trovata in un ospedale di Torino,ritornando a cena coni parenti in Venezuela. «A un certo punto sono salita al piano di sopra per recuperare il cellulare», spiega. ll tallone ha perso l’equilibrio, la gamba ha ceduto, poi «la prima fitta lancinante e un crack». Abigail non indugia, la voce non cala: “Vado alle scuole serali per il diploma di terza media, i miei titoli qui non valgono”

È il primo passo di un calvario a lieto fine, ma non si sente né il dolore di quegli anni né il sollievo per un finale che sa di miracolo. Non se li è potuti permettere, imprigionata in un sistema sanitario come quello venezuelano dove «se vuoi operarti devi pagare tutto tu» e tanti specialisti «ti lasciano morire, pur di non prendersi la responsabilità di provare a salvarti. Dicevano che ero come una bomba, guarirmi poteva finire male. E non ci provavano nemmeno». La vita di Abi scorre insieme alle sue parole: i primi mesi bloccata su un letto in ospedale, la diagnosi del tumore, la prima operazione, il batterio che porta all’infezione, le fistole che la fanno soffrire e la prospettiva di perdere la gamba infetta perché nessun medico, tra Porlamar e Isla de Margarita, ha il coraggio di operarla una seconda volta «se non per amputare».

Quattro anni di dolore e lotta con la vita. Dal 2017 al 2021, solo tre passaggi interrompono il flusso controllato di un racconto pieno di date e dettagli. Prima scena: le lacrime, arginate in fretta senza che arrivassero a rompere lavo ce, quando ricorda «lo spavento, il dolore di quel 31 ottobre, giorno del mio compleanno, passato in ospedale mentre mi diagnosticavano il tumore». Seconda scena: quando ricorda le ore passate a ballare. «Era tutta la mi avita e ora non posso – dice guardandosi il ginocchio che non potrà mai più piegarsi, compromesso definitivamente dalle operazioni fatte male o troppo tardi— ma se non posso ballare vorrei organizzare eventi per vedere gli altri farlo». Terza scena: la speranza di uno sguardo che si abbassa verso le mani, con le unghie piene di colori.

«In Venezuela, mentre studiavo Medicina, avevo iniziato a fare le unghie per guadagnare qualcosina: è una cosa che potrei fare anche qui in Italia» ragiona ad alta voce. Qui, in Italia, è arrivata quest’anno grazie alla gentilezza di mamma Vida «che non ha mai perso la speranza, è stata coraggiosa. È stata lei la prima volta a curarmi la gamba fratturata perché i medici non se la sentivano: mordevo un asciugamano mentre tirava, per mettermela a posto. Per anni è stata il mio medico, la mia àncora».

A settembre 2021 quell’àncora, senza accorgersene, le cambia la vita: «Mentre si prendeva cura di me ha iniziato a seguire la madre ammalata di Beatriz, una sua amica che vive da anni a Napoli: lei veniva in Venezuela una volta all’anno e non poteva starle vicino. Quando è tornata, quell’autunno di ormai un anno fa, Beatrice mi ha incontrato e ha iniziato a pensare una soluzione per portarmi in Italia». Abigail a quel punto si racconta a video, riavvolge il nastro: la frattura, il tumore, l’operazione, l’infezione, i medici immobili, i soldi che mancano, anche il viaggio di ritorno dall’ospedale alla sua isola in barca «col capitano che non sapeva dove mettermi, e sono rimasta sdraiata in un bagno col kit di soccorso al mio fianco».

Beatriz si mobilita, chiama e trova un’associazione disposta a pagare «il viaggio e l’accoglienza che non ci saremmo mai potuti permettere», ammette Abi. Si attiva una rete solidale e da Napoli si trasferisce subito a Torino, con i medici del Cto supervisionati dal professor Massè che si prendono cura di lei e Specchio dei Tempi, insieme ai lettori, che finanzia le spese mediche e questi mesi di permanenza in Italia. «Grazie alle cure che ho ricevuto qui sono tornata a camminare – dice, e nel capitolo italiano della sua storia la voce si trasforma davvero per la prima volta – ora frequento la scuola serale per il diploma di terza media: in Venezuela ero arrivata a metà percorso di Medicina, ma qui non vale niente».

Una famiglia di Torino la ospita per la riabilitazione: «Chiacchiero molto con le mie sorelle e mi fanno sentire a casa». Perché sia casa, manca ancora qualcosa: «Il 22 dicembre mi sono sposata con Davide a Isla de Margarita, ora fa il meccanico ma l’ho conosciuto mentre faceva il fisioterapista: curandomi, ci siamo innamorati. Adesso cerca di raggiungermi, ma le pratiche per il passaporto in Venezuela sono complicate. Lo vorrei qui». Chissà che l’appello non arrivi a Giorgia Meloni, che nel 2018 invitava «ad accogliere i venezuelani, che sono cristiani e di origine italiana, se proprio abbiamo bisogno di migranti». Lei non chiede niente: «Io non so niente di politica. So solo di essere stata fortunata». Poi scoppia a ridere, ripensando a suo marito: «Pensa te: l’ho sposato e l’ho lasciato!».

Per il futuro, Abigail sa cosa vuole: «Solo la normalità». Che ha molti volti: sognare «un futuro da medico, perché non voglio che nessun altro patisca ciò che ho sofferto io». Incontrare gli scoiattoli al parco del Valentino a Torino: «In Venezuela non ci sono. La natura qui mi ha rapito». Leggere i libri «che consigliano le mie sorelle, per imparare l’italiano prima possibile». Camminare, dopo quattro anni in cui non le è stato possibile: «Lo faccio con questa stampella, ma in Venezuela sarei morta. Qui mi hanno salvato la vita, e qui vorrei continuare a vivere».

Abigail, la ragazza venezuelana che non vuole morire

Elisabetta Rosso

“Qui non sopravvive”. Abigail, per tutti “Abi“, sente quelle parole mentre è distesa su un letto dell’ospedale Dr. Luis Ortega di Porlamar, Venezuela, con la gamba viola vinaccia pulsante di dolore. “Sapevo che era vero, e avevo paura”, dice Abigail con la voce più bassa, mesi dopo, seduta su un altro letto, quello del CTO di Torino. Specchio dei tempi, insieme ai medici piemontesi e ai lettori de La Stampa, si sta prendendo cura di lei.

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La sua storia è drammatica. Tutto inizia la sera del 2 settembre 2017. Abigail stava cenando con la sua famiglia. Si alza, sale al piano di sopra, entra nella sua stanza per recuperare il cellulare. Scende il primo gradino, il tallone perde l’equilibrio, la gamba cede, “ho sentito una fitta lancinante e un crack”, rimarca il suono con la voce squillante e una smorfia di dolore sul volto. Arriva in pronto soccorso, non riesce a muovere la gamba che è scomposta a causa della frattura. Parte da qui il lunghissimo percorso che costringerà Abigail a stare ferma in un letto di ospedale per mesi, tra speranze di guarigione e ricadute pesanti, spesso dovute alla negligenza di un sistema sanitario che non ha i mezzi per sostenere cure e interventi.

“In Venezuela se vuoi operarti devi pagare tutto tu, di per sé la sanità è pubblica ma non hanno fondi e per noi trovare i soldi è stato un problema” spiega. Il 31 ottobre  compie 17 anni in ospedale e le viene diagnosticato un tumore osseo grave. Il medico dice che la gamba è da amputare. Abigail prende il cellulare, scorre alcune immagini, poi gira lo schermo e mostra le foto della sua gamba, “qua l’avevano perforata per allungare l’osso. Ma non è servito a molto. I medici evitavano il mio caso perché troppo difficile, non sapevano come trattarlo. Mia mamma ha dovuto rimettermi a posto la gamba dopo la frattura, mentre io tenevo un panno bagnato stretto tra i denti”, spiega Abigail. Dopo mesi di cure sbagliate, alla fine, grazie ad un innesto osseo si riesce ad asportare il tumore e a salvare la gamba.

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Passano quattro anni. Abigail riprende a piccoli passi la sua vita, si sposa, comincia a studiare medicina, ma è una parentesi temporanea perché l’innesto si infetta, è grave. L’operazione non è stata fatta bene. Abigail torna in ospedale, torna il dolore, le pillole, il bianco asettico delle corsie con le luci pallide.

“Non me lo dissero subito, ma la gamba peggiorava. Poi l’ho saputo: non sarei sopravvissuta all’infezione, almeno non lì. E io non avevo più la forza per vivere”. È l’arrivo di Beatrice a sparigliare le carte, è venezuelana, vive a Napoli, è come una zia per Abigail, “la conosco da sempre, era scesa per andare a trovare sua madre. Appena mi vede si mobilita, chiama, cerca, insomma alla fine trova un’associazione che è disposta ad aiutarmi, che mi paga il viaggio e l’accoglienza”, racconta Abigail. Poi tira fuori dalla sua borsetta rossa trapuntata il biglietto aereo con data 22 aprile, “con questo sono arrivata in Italia”, sorride e lo tiene qualche secondo tra il medio e l’indice.

Abigail lotta contro il cancro da quando ha 17 anni

Si attiva una rete solidale. Abigail arriva a Napoli, ma è una tappa breve perché i medici del CTO la stanno già aspettando a Torino. Il testimone passa a Specchio dei tempi, che, insieme ai suoi lettori, sosterrà Abigail e finanzierà le spese mediche. “Ho superato la prima operazione, ora aspetto la seconda sempre qui al CTO”. Abigail ci saluta con un grazie, ripetuto almeno cinque volte nell’ultimo minuto di conversazione. Un grazie che le riempie le labbra e invade tutto il resto: la sentenza di morte sembra ormai lontana e il cammino verso una nuova vita forse è cominciato.

Come aiutare Abigail

Tutti possono aiutarci sostenendo la raccolta fondi “Per Abigail”. Si può donare online cliccando qui. Oppure con un bonifico sul conto corrente intestato a Fondazione La Stampa Specchio dei tempi ONLUS IBAN IT67 L0306909 6061 0000 0117 200 Banca Intesa Sanpaolo. Nella causale è sufficiente indicare “Per Abigail”.

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