Vincenzo, che ha perso tutto e ora lotta contro il cancro

Chiara Viglietti
La Stampa Cuneo, 1 dicembre ’21

E’ nato ottantadue anni fa nell’Africa d’Italia. Quella conquistata da Mussolini nello spazio della folle illusione fascista. E’ nato, Vincenzo, ad Addis Abeba. E quel nome ha fatto della sua vita un lenzuolo steso tra due balconi. Oltre il filo del mare, il sogno dolce di un’infanzia sottovuoto, lontana. Al di qua la vita che ti insegna a stare al mondo. Al gioco spietato di certe carte che passano per un fallimento, il buco nero degli strozzini e la vita che perde pezzi. Tutti i fili, uno dopo l’altro: la famiglia che si sfascia, i figli da riconquistare, un puzzle da ricomporre. Oggi Vincenzo abita una casa popolare a Cuneo, sessantacinque metri quadrati, e vive con una pensione da 600 euro, un piccolo assegno di invalidità e la Tredicesima dell’Amicizia, l’aiuto da 500 euro che Specchio dei tempi gli ha appena consegnato.

Ma vive pure di morfina. Senza non potrebbe tirare avanti. E avanti vuol dire fino alla fine del giorno. Poi il corpo reclama il dolore della sua integrità violata. Perché il tumore, l’ultimo che gli hanno diagnosticato, ha costretto i medici a tagliare nervi e recidere muscoli che solo la morfina riesce a ingannare. Per qualche ora, però: poi la mente sprofonda di nuovo nel dolore. «La mattina è il momento peggiore: devo prendere un mondo di morfina per tornare a sentire che sono vivo e non pensare a tutto il male che mi attraversa». Non c’è commiserazione nelle sue parole. Ma una firma per la vita così com’è, per accettazione. Meglio essere uomini risolti che i soliti sopravvissuti. E’ andata com’è andata: essere vivi come un privilegio. «Avevo una Ferrari, adesso cammino a piedi sotto la pioggia, cosa dovrei fare? Disperarmi? Ma perché: mi sono lasciato alle spalle la smania del possesso, dell’avere, dell’essere a tutti i costi. Vivo da povero senza sentirmi povero».

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Forse peggio che esserlo è diventarlo. Partendo da un inizio trasognato anche se guerrafondaio: lui che nasce ad Addis Abeba da un padre dirigente del Fascio, poi fatto prigioniero dagli inglesi, e la famiglia che nel frattempo ripiega su Napoli. Due anni dopo il padre torna, trova un posto in Finanza, Vincenzo frequenta le scuole migliori e studia. Lavora sodo. Impara le lingue del mondo: russo, spagnolo, inglese. Perché i suoi «avevano la fissa: mi dicevano che era come sapere le stesse cose ma di più». Più parole per dire è come aprire intere scatole cinesi per la mente. E sono questi i bagagli con cui Vincenzo lascia Napoli, viaggia in Italia, mette su famiglia e due figli.

Scala un’azienda: da dipendente diventa direttore. «Avevo la responsabilità di duemila persone. Poi un giorno mi avvicina un alto dirigente del Governo di allora: mi propone di diventare concessionario italiano di alcune importanti colossi farmaceutici che si occupano di prodotti galenici». E’ l’occasione per salire, scalare, ancora e ancora. Lui accetta: apre uffici e filiali in Italia, storia di 30 anni fa. «Fornivo grandi quantitativi per la Croce Rossa, le aziende sanitarie, i carceri. Gli accordi erano: mi pagavano dopo sei mesi. Dunque dovevo anticipare di tasca mia ma ero tranquillo: lo Stato prima o poi salda». 

Non aveva tenuto conto di Mani Pulite. Vincenzo finisce nel tritatutto di un’epoca che ha voluto ripulire la coscienza di un Paese senza riuscirci granché. E fallisce: «Ero disperato. Tutti i pagamenti delle aziende pubbliche erano stati bloccati ma io a mia volta avevo contratti firmati con le case farmaceutiche e dovevo pagare. Ero indebitato per 300 milioni: sono arrivati gli strozzini e sono fallito». La voragine è aperta, il fondo non ha fondo: «Ho lasciato la famiglia, ho tentato il suicidio in una camera d’albergo, sono stato salvato solo per il rotto della cuffia. Poi non so come ma mi sono rimesso in piedi. Ho aperto un’attività a Cuneo: lavoravo in campo pubblicitario».

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«Infine i miei tre tumori: per quello ai polmoni mi hanno dato 15 giorni di vita. Ed eccomi qui, ancora vivo». Aggrappato alle piccole cose: un’ora di canzoni, meglio se quelle che gli ricordano Napoli, lo sport in tv, qualche lettura, la telefonata di un amico. Nessun rimpianto, nessun vittimismo. «Tutto sommato è andata bene. Ma davvero la pensa così? «Certo, mi sarebbe piaciuto rivedere ancora una volta Addis Abeba. Ma non importa: io sono felice di quello che ho». Ah, cita Sant’Agostino: «No, cito me stesso. E quello che ho imparato dalla vita. Forse la sua lezione più importante».

Francesco, il nonno che deve tenere i termosifoni spenti

Lanza Raffaella
La Stampa, 29/11/21

«Il mio mondo ormai è tutto qui». Francesco indica la sua stanzetta, dove dalla poltrona si sposta a fatica nel letto. C’è una stufetta elettrica che scalda l’ambiente: «Sembra che dentro arda un pezzo di legno vero». I termosifoni si accendono solo per qualche ora al giorno: «Con la pensione minima cerco di risparmiare il più possibile». C’è la televisione: «Che guardo poco— dice Francesco -. Mi piacciono solo i documentari. E poi Jerry Scotti. Nei telegiornali invece ci sono solo brutte notizie».

Francesco, 74 anni, ha appena ricevuto la Tredicesima dell’Amicizia di Specchio dei tempi. L’assegno da 500 euro che la fondazione offre ogni Natale a 2000 anziani poveri e soli. Come Francesco, che vive in compagnia dei suoi acciacchi: «Nella vita mi è capitato di tutto: ho avuto un infarto, poi mi hanno messo tre bypass, due anni fa c’è stato un piccolo ictus e un intervento all’anca non riuscito. E ora faccio i conti con una polineuropatia alla gambe. Il dottore me l’ha già detto: peggiorerà sempre più. Sono già invalido al 100%». Malattie che però non spengono il sorriso sulle sue labbra. Francesco si sente vercellese, anche se lui è nato a Palermo: «Mio papà non mi ha mai detto ti voglio bene e non mi ha mai abbracciato. Mia mamma, idem».

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«Avevo un fratello gemello, Gaspare, che è morto l’anno scorso per il Covid. Poi altri quattro fratelli e una sorella: ora siam rimasti vivi in due». Francesco ricorda il nonno: «Che mi dava sempre 5 lire per comperare le caramelle». A Vercelli è arrivato quando aveva 16 anni: «E da qui non mi sono più spostato. Mio papà, che era imbianchino, era venuto su al Nord per lavorare nel cantiere dell’ospedale Sant’Andrea. Io ho iniziato a fare dei lavoretti: in argenteria, poi come manovale, alla fine ho fatto il fabbro. L’infarto però mi ha fatto perdere il lavoro. Ho sempre faticato nella mia vita».

A Vercelli Francesco si fatto una famiglia: è padre di tre figli. «Quando i miei genitori son tornati giù a Palermo, io son rimasto qui da solo e sono stato ospite dai marianisti, da fratel Placido, da padre Alberto. E poi, come volontario, mi sono avvicinato al Centro Volontari della Sofferenza. Agli esercizi spirituali di Re ho conosciuto mia moglie: quanto le volevo bene. Un tumore se l’è portata via, quasi 25 anni fa. L’ho assistita fino all’ultimo. Nella mia vita ho sempre fatto del bene: ora son gli altri che aiutano me. I miei figli mi sono vicini».

Francesco è stato inserito nel progetto «Forza Nonni» di Specchio dei tempi, che garantisce assistenza tutto l’anno: «Mi aiutano tanto. Quando mi consegnano la busta della spesa, c’è dentro ogni ben di Dio». Francesco sta seduto in poltrona: «Prima riuscivo a cucinare, ora invece le politiche sociali mi portano il pranzo. Mi manca non poter uscire di casa. Una volta con la motoretta da disabile andavo fin in viale Garibaldi. Mi ero fatto costruire uno scivolo per scendere dal marciapiede: mi era costato 50 euro. Dopo qualche mese me l’hanno rubato. Addio passeggiate. E mi manca anche la mia Sicilia: ogni tanto vado su Google Maps per vedere la strada dove sono nato. Oh che magone».

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Intervista a Bollani: «Ecco il mio concerto di Natale»

Alessandra Comazzi,
La Stampa, 21/11/21

Stefano Bollani: è lui il protagonista assoluto del Concerto di Natale, organizzato da Specchio dei tempi per sabato 11 dicembre, ore 20,45 all’Auditorium del Lingotto. Con il ricavato della vendita dei biglietti si aiuteranno gli anziani soli, grazie alle «Tredicesime dell’amicizia». Bollani è fresco di almeno due successi: il programma di Rai3, «Via dei motti numero zero» e l’album «Piano Variations on Jesus Christ Superstar», versione inedito e strumentale per pianoforte solo del capolavoro di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice.

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Maestro, che cosa suonerà a Torino?
«Quando faccio concerti da solo, di solito non preparo la scaletta, vado dove mi portano cuore e pianoforte. Ma questa volta sarà diverso: quello di Torino è un appuntamento dedicato a “Jesus Christ Superstar”. Sono gratissimo a Webber che mi ha concesso di reinterpretare la sua musica, lui che, giustamente, sempre chiede un’esecuzione nota per nota».

«Jesus Christ Superstar» è un’opera iconica per tanti suoi spettatori/ascoltatori. Farà altro, al concerto di Torino?
«Musicalmente no. Però, certo, ci saranno le mie consuete divagazioni. Con l’emozione della capienza piena della sala, finalmente, dopo la pandemia».

Però lei ha fatto tante cose in questo periodo spesso cupo: prima fra tutte, abbiamo visto, il programma e l’album. Come mai?
«Perché Valentina, mia moglie, e io siamo stati fortunati, riuscendo ad approfittare dello pandemia per concentrarci su nuovi progetti».

Infatti in «Via dei mari numero zero» si respirava la gioia della creatività, anche quello degli ospiti: come avete creato questa atmosfera?
«C’era un barbatrucco: praticamente tutti gli ospiti che sono passati da noi su Rai3, sono amici. La gioia di suonare insieme era grande. E spesso la gioia era moltiplicata dal fatto che tanti non si esibivano in pubblico da tempo. Poi credo si sentisse anche la bella atmosfera nata con Rai3 e con la produzione di Ballando.»

E dunque il programma tornerà?
«A noi piacerebbe, siamo interessati, certamente speriamo».

Com’è lavorare con sua moglie?
«Non è lavorare, è progettare insieme. E’ fare le cose con un alleato di cui mi fido completamente. Valentina è la mia più grande collaboratrice. Lei recita, canta, balla. Siamo tutti e due interessati a molteplici forme di arte e di comunicazione. Non c’è competizione: l’ultima parola è sempre la sua».

Lei ha scritto in un suo libro che la musica è trascurata dal sistema italiano dell’istruzione: è sempre così?
«E’ ancora così, tante cose si stanno muovendo, e vanno di pari posso can la scientificità delle terapie musicali che ampliano, migliorano, il sistema cognitivo. Sono convinto che prima o poi queste realtà saranno recepite anche dall’ordinamento scolastico».

Ma lei la televisione la guarda, oltre che farla?
«Confesso, poco. Non parlo per snobismo, ma perché il tempo è quello che è».

«Mozart in the Jungle», il telefilm che ha come protagonista un direttore d’orchestra geniale, l’ha visto?
«Ah, quello si, avevo anche letto il libro da cui la serie è tratta, e mi è piaciuta tantissimo. Trovo molto azzeccati i temi affrontati, come quello che riguarda l’ego dei musicisti. Il Rodrigo, il maestro, di Gael García Bernal è perfetto».

Quindi si può anche fare divulgazione, con la tv: e si può divulgare anche la musica?
«Altroché. Divulgazione non è una parolaccia. Ricordo, sempre nella serie, una puntata tutta dedicata a Messiaen. Mica facile».

E i Måneskin, di cui si parla tanto, come li trova?
«Simpatici».

Simpatici e basta? Li inviterebbe in trasmissione?
«Non glielo dico».

Probabilmente vuole dire sì.

Padre Antonio: “Qui ad Haiti le vostre donazioni diventano speranza”

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Padre Antonio, camilliano ad Haiti

Carissimi,
vi informo che è pervenuto il bonifico di Euro 36.237,47 a copertura delle spese sostenute per il container caricato il 29 ottobre con destinazione Haiti.
Non ho parole per ringraziarvi per questo meraviglioso gesto di solidarietà e per il continuo appoggio alle nostre attività.

La vicinanza, il sostegno, la partecipazione che ci dimostrate da tanti anni, ci riempiono il cuore di gratitudine e di riconoscenza perché, al di là dell’importantissimo contributo economico, ci sentiamo meno soli nel cercare di portare un po’ di aiuto al dilaniato popolo haitiano.

Il riso, gli alimentari, i pannolini che abbiamo acquistato grazie al vostro contributo, diventano così speranza in un futuro un po’ meno nero, in cui la vita di tante persone possa diventare meno disumana.

Grazie da profondo del cuore e un caro saluto.
Padre Antonio

Il calvario di Ilda, 88 anni tra fame e lutti

Raffaella Lanza,
La Stampa, 21/11/21

«La mia vita è stata un calvario». Ilda ripete spesso questa frase mentre snocciola la sua esistenza «fatta di fame e di lutti». Ilda ha compiuto 88 anni: invalida al cento per cento, convive con gli acciacchi della vecchiaia. «Dovrei operarmi di cataratta, ho il diabete e tanti altri problemi di salute» racconta. Per muoversi deve usare un deambulatore: l’anno scorso si è rotta il femore. Oggi vive in una casa dell’Atc. «Prima ero in un’abitazione privata, in centro, ma purtroppo c’erano umidità e topi. Giravano per casa, mi hanno anche morsicata. Oggi sono qui in queste due stanze, pulite e calde, e per questo devo dire grazie al Comune, ma mi sento in gabbia. Mi vien la depressione: mi passa la voglia di vivere». Dal suo appartamento per arrivare fino alla strada c’è una lunga discesa e alcuni scalini: un impedimento che non permette a Ilda, che fatica a camminare, di potersi muovere in libertà.

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Ilda, originaria della Calabria, a Vercelli vive ormai da cinquant’anni: «Ma prima ho viaggiato – ricorda -. E me lo sogno ancora di notte. Sono stata anche all’estero: in Inghilterra, con mia sorella, dove ho lavorato in una fabbrica vicino a Londra. Ho fatto la quinta elementare: giù al Sud non c’era lavoro, quindi ho preso coraggio e mi sono spostata». Ilda è poi andata a Trivero, sempre per lavoro, in una filatura e lì ha conosciuto il marito, muratore. «Ci siamo spostati in altri posti, poi siamo arrivati a Vercelli. Oggi sono vedova: ho perso anche un figlio, che è morto a 35 anni. Un dolore grande: quando perdi un figlio perdi un pezzo di cuore». Ha altri due figli: «Uno mi viene a trovare, l’altra invece è in Calabria. Son nonna di due nipoti. In famiglia eravamo in dodici, tra fratelli e sorelle: oggi siam rimasti in due. Meno male che c’è il telefono, così posso chiamare mia sorella, che vive a Torino. In questo modo la solitudine fa meno male».

Le foto di quando lei era ragazza sono appese in cucina, dove c’è anche un grande quadro del figlio defunto: «Piango ogni giorno per lui». La cucina è ordinata: «I mobili me li hanno regalati. Sono contenta quando qualcuno viene a trovarmi. Viene anche una dottoressa, che mi segue: è così gentile». Ilda, avvolta in una sciarpa perché la cervicale non le dà tregua, quando racconta che da ragazza andava a ballare, si illuminano gli occhi e la bocca disegna un grande sorriso: «Ho ancora tutti i vestiti: li conservo con cura», sottolinea lei.

E non smette di sorridere anche quando parla di Specchio dei tempi che le ha donato la Tredicesima dell’Amicizia, l’assegno che viene offerto a 2000 anziani fragili ogni Natale. Specchio l’ha pure inserita nel progetto «Forza Nonni!». Spiega: «Mi portano la spesa due volte al mese, viene una signora ogni settimana a farmi le pulizie. E poi mi telefonano i volontari: è bello parlare con loro. L’altro giorno una di loro mi ha detto “ti voglio bene”. E anche che sono proprio una signora gentile. Questo mi ha davvero scaldato il cuore. Sì, sono proprio bravi: mi aiutano tanto». Ilda, che percepisce una pensione minima, dice con orgoglio: «Pago tutte le bollette. Prima andavo io stessa in posta. Oggi invece, non riesco più. Faccio tanta fatica ad uscir di casa. Oggi avrei mangiato volentieri qualche acino d’uva, e invece… per le commissioni devo dipendere dagli altri. E’ proprio brutto diventare vecchi».

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L’ex cuoco che non può permettersi il biglietto del bus

di Lucia Caretti, La Stampa 6/12/2020

Cucina, letto, televisione. Le giornate di Alfonso sono “tutte uguali. Da quando c’è il Covid, non posso più uscire. Nemmeno vicino a casa”. Alfonso ha paura: ha 73 anni, il diabete e problemi di cuore. Abita in periferia e per lui anche andare a Cuneo è un’impresa. Deve fare tre chilometri di strada. Troppi per camminare: “Mi stanco subito”. Troppi persino per prendere il bus. “Il biglietto costa 3 euro. Non me lo posso permettere”. Così Alfonso passa il tempo sulla sua sedia, a contare i risparmi. “Come si fa con una pensione da 649 euro? Devo comprarmi da mangiare. Pagare l’affitto, le bollette, le medicine”.

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L’ultima stangata sono le spese condominiali, 950 euro. Per metà le coprirà con la Tredicesima dell’Amicizia di Specchio dei tempi, la carezza dei lettori de La Stampa. Un progetto con cui dal 1976 la fondazione abbraccia gli anziani più fragili. L’obiettivo è raccogliere 1 milione di euro entro Natale, per donare speranza a 2000 nonni come Alfonso. Ognuno riceverà un assegno di 500 euro. Ognuno ha la sua stessa storia di fatica e abbandono.

“Sono scappato di casa quando avevo 12 anni” racconta con accento pugliese. “C’era fame, non c’era lavoro, e avevo una zia vicino a Torino. L’ho raggiunta e mi ha spedito in carrozzeria. Ho fatto l’apprendista, poi il muratore e i turni in fonderia”. Ecco perché quelle cicatrici sul braccio. Le mani invece raccontano la sua seconda vita da chef. “Ho girato tutte le cucine del Piemonte” spiega con orgoglio. Quelle di montagna, da Limone a Sestriere: Alfonso ha dato da mangiare a generazioni di sciatori. E’ stato nei rifugi sulle piste, nelle pizzerie e nei ristoranti. “Finito il servizio mi mettevo a suonare. La musica e la cucina sono le mie due grandi passioni”.

Per questo ha appeso una vecchia chitarra vicino al divano. E ha trascritto le sue ricette in un’agenda che custodisce come un tesoro. Quei due ricordi lo tengono vivo. “Sono già morto due volte. Sono collassato in casa e mi sono salvato per un pelo”. Colpa di varie malattie e della più terribile. “Sono solo come un cane” confessa. “Mio fratello, il mio unico amico, non c’è più. Gli altri parenti sono lontani e stanno peggio di me. Non possono darmi una mano. I vicini? Buongiorno, buonasera, ma non c’è solidarietà. L’unico vero aiuto che ricevo è quello di Specchio dei tempi”.

Dopo lo sfratto, per un anno è stato in una casa protetta del Comune. Poi ha ottenuto questo piccolo appartamento dove entra appena un filo di luce. C’è una tapparella rotta, il peperoncino sul balcone, una cucina attrezzata con vecchi tegami e fornelli di recupero. “Mi sono sempre arrangiato. Quando faccio la spesa guardo ogni singolo prezzo, so che i soldi devono essere usati bene e non puoi fare il passo più lungo della gamba. Non ho mai bussato a nessuna porta, ma ora sono in difficoltà e ci metto la faccia. Non mi nascondo. Sono i politici che dovrebbero nascondersi”.

Alfonso è arrabbiato per i pullman che dalle sue parti non passano mai. Per l’operazione all’occhio per cui dovrà attendere altri nove mesi: “Vedo solo nebbia”. E’ arrabbiato soprattutto per l’autonomia negata. “Vorrei andare in ospedale e a farmi la spesa da solo. Invece non posso muovermi e devo aspettare che venga l’assistente sociale ad accompagnarmi, una volta alla settimana”. Ecco perché quell’ossessione per la patente: “Non ce l’ho più. Mi piacerebbe provare a riprenderla. Vorrei riconquistare un po’ di libertà. Spero che Babbo Natale mi regali il corso”. O almeno l’abbonamento del bus.

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Antonio e la pensione che dura solo tre giorni: “Aiutatemi”

di Lucia Caretti

Antonio lavorava sui vagoni letto. Adesso dice di essere diventato un matematico: ha l’ossessione per i conti. Ogni mese i numeri sono gli stessi. “Appena arriva la pensione mi tolgono 220 euro per la separazione. Ne restano 515. Devo pagare l’affitto, gli arretrati e la luce. In tre giorni non ho più nulla”. Quando Specchio dei tempi va a trovarlo ha in cassa soltanto 15 euro e mancano venti giorni all’accredito successivo. È una mattina di ottobre, c’è il sole e Natale sembra lontano. Non per Antonio. “Aspetto la vostra Tredicesima con ansia. Quando la consegnerete?”.

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In questi giorni, come sempre: la Fondazione sta erogando centinaia di sussidi da 500 euro ciascuno, per gli anziani più fragili del Piemonte. Anziani come Antonio, che è stato per trent’anni sui Wagons-Lits e poi in una cooperativa. E riceve la Tredicesima dell’Amicizia da quando il treno della sua vita è deragliato. “Sono stato sfrattato – racconta – e per un lungo periodo ho sofferto tra dormitori e pensioni. Ho passato le pene dell’inferno, ma ho lottato e sono riuscito ad avere di nuovo un alloggio”. Quello dove abita ora: un buco nel centro città, in un palazzo popolare nascosto tra le vie più eleganti di Torino. Le pareti sono tinteggiate a metà, colpa di una gamba che fa male. Le bollette da saldare sono impilate sul piccolo tavolo, colpa di quella pensione troppo bassa. A due passi c’è “la casa più bella del mondo”, una famosa residenza extra lusso pluripremiata. È tutto così vicino, eppure così distante.

“Ho 73 anni e ci metto la faccia” continua Antonio sfogliando il quaderno delle spese. “Non mi vergogno, non piango, sono sincero. Questo mese ho pagato 200 euro di luce, se no mi staccavano lo scaldabagno. Ho degli affitti arretrati. I vestiti? Me li hanno donati. Nei confronti dei sostenitori di Specchio dei tempi sono debitore in tutto: durante il lockdown a marzo mi hanno regalato il pacco alimentare. Senza la Tredicesima, a dicembre, non saprei proprio come fare”.

La raccolta prosegue e più cresceranno le donazioni, più assegni saranno distribuiti. Le richieste sono già state verificate. Persone come Antonio le preparano con mesi di anticipo: “Ogni anno scrivo una lettera a mano e telefono per ringraziare. Chiedo, senza nessuna pretesa, perché so che non è obbligatorio aiutarmi. Chiedo perché ho bisogno. Chiedo e spero che mi richiamino con una risposta positiva. Anche stavolta è successo. Grazie di cuore”.

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L’eterno lockdown di Luigina: “Mi serve una sedia a rotelle”

di Lucia Caretti

Dalla finestra di Luigina si vede il Castello di Fossano, ma il panorama non le interessa più. “Da cinque anni non esco di casa. Mi tremano le gambe. Rischierei di cadere”. Quelle gambe gonfie, malate e piene di lividi riassumono tutta la storia: Luigina ha lavorato e combattuto. E’ rimasta sola e prigioniera nel suo piccolo appartamento. “Mi servirebbe una carrozzina. Ma per averla gratis bisogna andare dal fisiatra”. E il problema è sempre lo stesso: Luigina non può più uscire e camminare nel mondo.

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Dal letto alla cucina si trascina con una specie di girello: “La mia Cadillac”. La sua tana è una vecchia poltrona nera mezza rotta, dove passa le giornate a cucire ed aspettare. Quando arriva a trovarla Specchio dei tempi, ha preparato dei centrini per la fondazione. Un modo di dire grazie ai lettori de La Stampa che la sostengono da tanti anni con le Tredicesime dell’Amicizia, il progetto a favore degli anziani più poveri. “Questo piccolo dono è un dovere, perché voi fate tanto. Il denaro che ricevo da voi per me è fondamentale. Devo pagare la caldaia, le bollette, le medicine. Ho il diabete, la tachicardia, le piaghe. Vivo con l’assegno sociale”. Meno di 500 euro al mese. “Ho fatto l’inserviente in ospedale e poi ho collaborato con mio marito, traslocatore. Che però non mi ha mai versato i contributi. E mi ha dato tante botte”.

Un giorno se n’è andato e Luigina non ha dubbi: la più grande gioia dei suoi 82 anni è aver divorziato da quell’uomo. Da allora però anche il resto della sua famiglia si è divisa. Una ferita dopo l’altra. Oggi le resta una figlia che la cura con un amore e una dedizione commoventi. “Appena può viene da me, perché purtroppo io non riesco più a fare niente” spiega la donna. “Ma lei a sua volta ha figli e lavoro, e le dico che non può pensare occuparsi solo di me”. Così, inevitabilmente, per molte ore Luigina non ha compagnia e aiuto. Quest’estate è caduta in camera, il telefono era lontano. “Ho iniziato a urlare e il vicino mi ha sentita. E’ entrato dal balcone rischiando di farsi male. Un angelo”.

Luigina ha perso i denti ma non il sorriso. Racconta di una nipotina e del Natale alle porte: “Mi piacerebbe fare tanti regali”. Impossibile. I soldi non bastano e questa donna orgogliosa e rispettosa degli altri, non vuole debiti. Non ne ha mai avuti. Luigina ha una tempra da atleta: è rimasta la ragazzina che a 16 anni vinceva le gare di stile libero. E’ nata a Genova, si è trasferita nel cuneese trent’anni fa. Si porta dentro il mare e nuota in mezzo alla tempesta da tutta la vita. “Mi piace stare allegra, ma quando sono sola spesso mi prende il magone. Non ho fratelli e sorelle. Solo mia figlia e l’aiuto dei donatori di Specchio dei tempi. Li ringrazio davvero con il cuore”.

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Franco, che a 76 anni vive al dormitorio: “Aiutatemi, sogno una casa”

di Lucia Caretti

Al dormitorio funziona così: dalle otto del mattino si può uscire. Entro le 19 bisogna rientrare. Ma persino per stare fuori, e girovagare per la città, serve qualche moneta. Franco non ne ha e rimane sempre qui, in questo rifugio per senzatetto nella periferia ovest di Torino. Franco ha 76 anni e da dodici, ormai, è non ha più una casa. “Sono in attesa di quella popolare. Un affitto? Ci vogliono i soldi della cauzione. Non sono ancora riuscito a trovarli”. Franco era un barbiere. Arriva dalla Sicilia, non sa scrivere, possiede due maglioni ma dice di non aver “bisogno di niente. Mi mancano solo i denti. E i soldi per andarmene da qua”.

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Dalle pensioni più sgangherate ai container di Piazza d’Armi, questo signore magro e diritto ha dormito un po’ ovunque. “Mai per strada” dice con un mezzo sorriso. “Sono fortunato, con il Coronavirus, data la mia età, non penso che mi sbatteranno fuori. Dove sono ora ci sono i bagni, le stanze da due, un piccolo giardino”. Le inferriate intorno. Qualche panchina. “Visite? Ne possiamo ricevere, ma i miei figli si vergognano a venire”.

Tutti gli anziani delle Tredicesime dell’Amicizia (ogni Natale ne aiutiamo 2000, dal 1976) hanno alle spalle famiglie lacerate. Vite normali distrutte da malattie, licenziamenti o liti. Ferite profondissime, conti in rosso, la povertà all’improvviso o quell’eterno trascinarsi da una difficoltà all’altra. Senza l’aiuto di nessuno. Franco non giudica chi lo ha dimenticato, non si piange addosso, spiega soltanto che la sua è “una lunga storia”. Il resto lo racconta con gli occhi: gli occhi di un uomo solo, che non ha perso la speranza. E la capacità di ringraziare.

Questi 500 euro donati da Specchio dei tempi sono fondamentali. Si avvicina il mio obiettivo di trovare una casa. Continuo a mettere soldi da parte”. Ci vogliono mesi, però, con la sua pensione minima. “Prendo 649 euro. Mi sono sempre aggiustato, ma non è facile adesso. Dovrebbero alzarla a 780 euro. Solo così potrei farcela a pagarmi le spese e un piccolo affitto”. Avere un posto, delle chiavi, una porta da aprire e chiudere all’ora che si vuole: “E’ questo che mi manca di più. La libertà”. Ecco perché Franco non si arrende e confida nei sostenitori di Specchio e nei lettori de La Stampa. “Se non mi aiutate voi, chi mi aiuta? Nessuno”.

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